SMARTART N.42 La condizione sociale dell’artista alle soglie del Rinascimento

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SMARTART N.42 La condizione sociale dell’artista alle soglie del Rinascimento

SMARTART N.42 La condizione sociale dell’artista alle soglie del Rinascimento

Buongiorno a tutti. Nessun cittadino benestante, alto borghese e meno che mai nobile, nel medioevo, si sarebbe mai sognato di fare l’artista, non solo per questioni economiche, ma soprattutto perchè tale mestiere era considerato servile, umile, umiliante. Il termine artista, nel Medioevo, non designa pittori, scultori o architetti, ma dotti ed intellettuali. Gli artisti sono artifices, come i sarti, i falegnami, i maniscalchi, coloro che producono oggetti concreti. Io però per non creare confusione continuerò ad assegnare al termine artista quello che intendiamo oggi. Le arti (cioè i mestieri) nel medioevo hanno una netta distinzione tra quelle che richiedono impegno intellettuale e quelle che invece richiedono fatica fisica e lavoro manuale. Le prime sono le arti liberali e sono sette: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, musica, astronomia. Le seconde sono le arti meccaniche svolte da cittadini di ceto inferiore; in alcune città, come ad esempio a Firenze, sono ulteriormente suddivise tra maggiori e minori. Ogni arte, sia liberale che meccanica, è assegnata ad una corporazione, cioè una associazione che la rappresenta e pone regole rigidissime per tutelarne i diritti ed il numero minimo e massimo di associati. Non si poteva in ogni caso svolgere nessuna attività senza essere iscritti alla corporazione. I pittori furono assegnati alla corporazione dei medici e speziali, ma solo come sottoposti, per affinità nei materiali utilizzati e raggruppava anche i commercianti di pigmenti e gli imbianchini. Le spezie erano molto utilizzate in medicina ed i pigmenti per ricavare i colori erano importati dagli stessi mercanti di spezie per cui si misero insieme. Gli scultori e gli architetti invece furono aggregati alla corporazione minore dei muratori, dei falegnami e carpentieri. Come funzionavano queste corporazioni? Quella alla quale appartenevano i pittori, prevedeva il tirocinio usuale dell’artigiano medievale. La formazione dell’artista iniziava presto, fra i 10 e i 13 anni. Un atto notarile regolava il rapporto maestro e allievo. Il maestro, regolarmente iscritto alla corporazione, si impegnava ad insegnare il mestiere al giovane, spesso a fornirgli vitto e alloggio, a volte in cambio di una cifra concordata. L’iter formativo cominciava dalle attività più umili (tenere puliti gli ambienti di lavoro, preparare i collanti, macinare i colori), per passare poi al disegno e alla copia dai modelli, e concludersi con la realizzazione di parti secondarie nelle opere finite del maestro. Il periodo di formazione durava dai 3 ai 5 anni, ed era solitamente seguito da altri 3-4 anni di praticantato, durante i quali l’aspirante artista collaborava con il maestro affiancandolo come garzone. Sui 20-25 anni, dopo il superamento di una prova prestabilita, il giovane era autorizzato a lavorare in proprio, previa iscrizione alla corporazione sempre tramite un notaio. Ma sia l’iscrizione alla corporazione che l’iniziale aggregazione alla “bottega” per apprendere il mestiere, erano costose, pochi potevano permettersele. Firenze a partire dal Duecento, fu l’unica città in Europa ad agevolare i “talentuosi” e le regole erano decisamente meno rigide che altrove, mentre in tutte le altre città erano severissime. Soprattutto in nord Europa. Gli artisti che arrivavano dopo molti anni di praticantato a potersi iscrivere alla corporazione, erano i soli che potevano essere contattati per le commissioni. In ogni caso molto difficilmente poteva iscriversi alla corporazione di una città un cittadino proveniente da un’altra città. Erano invece favorite le iscrizioni da parte dei famigliari, anche delle donne, preferendo interi nuclei famigliari che si tramandavano il lavoro per generazioni. Nel nord Europa addirittura non ci si poteva iscrivere ad una Gilda (le corporazioni del nord Europa), se non si era familiare di un appartenente a quella Gilda. Per cui una persona che avesse voluto fare il pittore, doveva prima imparentarsi, ad esempio sposandosi, con un membro dell’associazione. Il tenore vita di un artista non era comunque differente da quella di un falegname o di un sellaio, vale a dire, nella stragrande maggioranza dei casi, di perenne ristrettezza economica e, come questi, doveva attenersi scrupolosamente alle direttive del committente, veniva pagato esclusivamente se il committente era soddisfatto. In nessun caso gli era concessa libertà espressiva, anzi quasi sempre gli venivano suggeriti i modelli da produrre, ed i colori da usare. Spesso, per mantenersi eseguiva anche decorazioni di stendardi, gualdrappe da cavallo, insegne… Nelle botteghe dei pittori, prevaleva il lavoro collettivo, cioè il pittore eseguiva parti di un dipinto che poi i ragazzi di bottega terminavano. A volte il maestro non metteva neppure mano al dipinto, ma questo al committente non interessava proprio. Voleva solo un lavoro ben fatto, non gli importava da chi. Per questo motivo fino al Trecento sono pochissimi o addirittura inesistenti i dipinti certi eseguiti per mano dal tal artista, tanto più che non si usava firmare il lavoro. In una città potevano operare solo gli appartenenti a corporazioni cittadine, solamente a partire dal Duecento, soprattutto in Toscana, artisti di indiscutibile fama erano accettati in altri luoghi. Questa “chiusura ai forestieri” fu una consuetudine che si protrasse ancora per secoli, anche se, da Giotto in poi, gli artisti più rinomati furono chiamati dovunque. Questa consuetudine protettiva diede origine alle vere e proprie scuole cittadine, come quella veneziana, quella romana, quella napoletana ecc.
Il lavoro era sempre e comunque su committenza, solo a Firenze nel Trecento, alcune botteghe iniziarono, nei tempi morti, a preparare alcune pale d’altare che poi venivano vendute all’occorrenza. Non esisteva qualcuno andasse dal tal maestro per scegliere un quadro. Non esisteva di conseguenza la libertà dell’artista di eseguire un dipinto secondo il proprio estro e metterlo da parte per chi eventualmente lo avesse apprezzato.
Nella seconda metà del Trecento, invece, attraverso l’esempio di Giotto la pittura è elevata a materia per i dotti, i soli in grado di comprenderne la bellezza: non più solo frutto di abilità manuale, ma frutto dell’ingegno dell’artista, risultato di espressione mentale e, come tale, cibo per l’intelletto. Inizia da qui il lungo cammino che, nel corso del Rinascimento, porterà le arti figurative a essere annoverate fra le arti liberali, con conseguente elevazione sociale dell’artista. Un caro saluto a tutti, Alfredo

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